Nuove norme sulle etichettature degli alimenti
Fonte: altalex.com
La sicurezza alimentare
La politica di sicurezza alimentare dell’Unione europea mira a proteggere i consumatori, garantendo al contempo il regolare funzionamento del mercato unico. Tale politica è multiforme ed abbraccia settori differenziati che aspirano ad assicurare l’igiene degli alimenti, la salute e il benessere di animali e piante ed il controllo della contaminazione da sostanze esterne.
Nelle società più povere è prevalente il problema della quantità alimentare, con diete così scarse e povere di vitamine e sali minerali da comportare patologie associate alla malnutrizione; nelle società avanzate come l’Europa, d’altra parte, sussiste la questione relativa alla qualità alimentare. Gli alimenti, infatti, possono presentare numerosi rischi per la salute delle persone, a seguito della globalizzazione dei mercati e del continuo progresso tecnologico. Le innovazioni tecnologiche, infatti, diversificando i prodotti alimentari, hanno aumentato il rischio derivante dal consumo degli stessi. Inoltre le conseguenze dell’utilizzo di nuove tecnologie che mirano al contenimento dei costi e all’aumento della produzione non sono facilmente predeterminabili, e gli effetti nocivi sulla salute umana dell’esposizione o dell’ingestione di determinate sostanze possono avere tempi di latenza anche molto lunghi (basti pensare alla epidemia di encefalopatia spongiforme bovina – o sindrome della mucca pazza – da ricollegarsi all’utilizzo, nei mangimi, di farine animali trattate con solventi potenzialmente pericolosi; o delle odierne preoccupazioni per l’utilizzo del glifosato come diserbante in agricoltura).
Per questi motivi, negli ultimi anni si è affermata una dimensione etica dell’alimentazione, che ha posto al centro dell’intervento delle politiche dell’Unione le modalità di produzione e di consumo del cibo ed ha portato ad un incremento dell’impegno nella vigilanza, nella valutazione dei rischi e nella revisione delle sostanze utilizzate.
La materia della sicurezza alimentare ha valore esemplare per comprendere le recenti evoluzioni della globalizzazione giuridica, nonché il grado di sviluppo del diritto amministrativo: le norme sulla food safety attraversano i confini nazionali, disciplinando e influenzando l’attività delle autorità amministrative, e attribuendo nuovi poteri a enti ultra-statali, in tutti i casi venendo a incidere singolarmente sulle sfere giuridiche individuali dei cittadini.
Il quadro normativo
La libera circolazione delle merci rappresenta un punto nodale delle politiche dell’Unione, nonché una delle libertà fondamentali del mercato interno. Tale libertà deve però garantire una protezione uniforme del consumatore, dell’ambiente e delle risorse energetiche.
La sicurezza alimentare implica una politica e una legislazione europea sulla qualità e sui rischi fondate sulle più recenti ed accreditate prove scientifiche che regolamentino l’intera catena alimentare (produzione, trasformazione, trasporto, distribuzione).
L’attuale quadro normativo trova la propria base giuridica negli articoli 43 e 114, 168 [sulla salute pubblica] e 169 [sulla tutela del consumatore] del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE).
Come ha affermato la Corte di Giustizia in data 4.04.2000 (nella causa C-269/1997) il perseguimento degli obiettivi fissati dalle politiche agricole (ex art. 43 TFUE) dell’Unione non può prescindere dalla tutela della salute pubblica e dal principio di precauzione.
Tale principio, citato nell’articolo 191 del TFUE, può essere invocato quando un prodotto o un processo può avere effetti potenzialmente pericolosi, individuati tramite una valutazione scientifica e obiettiva, anche se questa valutazione non consente di determinare il rischio con certezza. La finalità perseguita è quella di garantire un alto livello di protezione dell’ambiente grazie a misure preventive in caso di rischio. Il campo di applicazione del principio, però, è oggi molto più vasto e si estende anche alla politica dei consumatori, alla legislazione europea sugli alimenti e alla salute umana, animale e vegetale. Grazie a tale principio, in passato, è stato possibile impedire la commercializzazione o distribuzione di prodotti alimentari potenzialmente dannosi, facendo prevalere in tal modo la protezione del diritto alla salute e dell’ambiente sugli interessi economici.
In questo quadro giuridico si inserisce il Regolamento UE n. 1169/2011 relativo alla fornitura di informazioni sugli alimenti ai consumatori.
Il citato Regolamento ha consentito un riassetto della normativa previgente (Regolamento CE n. 1924/2006, Regolamento CE n. 1925/2006, nonché Direttiva CE n. 13/2000 del Consiglio e Direttiva CE n. 496/1990 del Consiglio come modificata dalla Direttiva CE n. 120/2003 della Commissione) e consolidato in un unico testo le precedenti norme di carattere generale su pubblicità, etichettatura, indicazione degli allergeni e dei valori nutrizionali.
Le prescrizioni in esso contenute, a partire da dicembre 2014, sono applicabili alle imprese in tutte le fasi della catena alimentare e a tutti gli alimenti destinati al consumatore finale. La responsabilità di fornire le informazioni obbligatorie, senza costi aggiuntivi, ai consumatori (la denominazione dell’alimento, l’elenco degli ingredienti, la quantità netta, la data di scadenza, le eventuali istruzioni per l’uso ed il nome e l’indirizzo dell’operatore) spetta al produttore con il cui nome sono commercializzati gli alimenti, o all’importatore di prodotti extra-UE.
Le informazioni nutrizionali sulle etichette
A partire dal 13 dicembre 2016 – dopo oltre otto anni di negoziazioni e al termine del periodo transitorio di ulteriori cinque anni – entreranno in vigore le ultime norme contenute nel Regolamento n. 1169/2011, che riguardano l’inserimento obbligatorio dei valori nutrizionali nelle etichette dei prodotti alimentari.
La disciplina è contenuta negli articoli 30-35 del Regolamento e impone a tutti i produttori (che non abbiano già deciso volontariamente di dare attuazione a tali prescrizioni in precedenza) di recare obbligatoriamente informazioni sul valore nutrizionale (in kilojoule [kJ] e kilocalorie [kcal] per 100 g di prodotto) e su sei nutrienti (grassi, acidi grassi saturi, carboidrati, zuccheri, proteine e sale) – indicati rigorosamente in questo ordine – ed espressi per 100 g o per 100 ml di prodotto.
Queste informazioni devono essere presentate in una tabella nutrizionale in modo che risultino tutte nello stesso campo visivo (sul retro o su un lato della confezione), e possono inoltre essere espresse per porzione, purché la dimensione della porzione sia indicata in grammi, unitamente al numero di porzioni contenute nel pacchetto. L’indicazione di ulteriori nutrienti (cioè monoinsaturi, polinsaturi, polioli, amido, fibre, vitamine e minerali) può essere inclusa volontariamente, così come è volontaria l’indicazione del valore nutrizionale anche sul fronte della confezione. Inoltre, la normativa europea si è spinta sino a indicare la dimensione minima dei caratteri (1,2 mm) per tutte le informazioni obbligatorie sui prodotti alimentari.
Da ultimo, l’Allegato V al Regolamento indica gli alimenti per i quali non si applica l’obbligo di presentare tali informazioni, tra i quali spezie, edulcoranti, gomme da masticare e tutti gli alimenti confezionati in imballaggi o contenitori la cui superficie maggiore misura meno di 25 cm2.
L’indicazione di origine dei prodotti caseari
Un altro aspetto, oltre a quello nutrizionale, che i consumatori ritengono di grande importanza è l’indicazione del Paese di origine dei prodotti. Un sondaggio Eurobarometro del 2012 ha evidenziato che per la quasi totalità di Italiani (88%) e Greci (90%) è molto importante la provenienza del cibo, mentre per cittadini inglesi e belgi la percentuale è sostanzialmente più bassa (52-56%).
L’indicazione geografica o di provenienza di un prodotto, secondo la normativa europea, è un’informazione obbligatoria solo per alcune categorie di alimenti e solo nei casi in cui la sua mancanza potrebbe trarre in errore il consumatore sulla reale origine del prodotto; per il legislatore comunitario, quindi, l’indicazione di origine è utile solo allorquando un alimento sia differente per le particolari condizioni geografiche in cui è stato prodotto (si pensi ai prodotti DOP o IGP) mentre se due prodotti sono identici dal punto di vista chimico e organolettico non è ritenuto necessario indicare il Paese di provenienza.
Non la pensano così gli Italiani: nel 2015 il Ministero per le politiche agricole, ambientali e forestali (Mipaaf) ha effettuato un autonomo sondaggio con 26.547 partecipanti, tra consumatori e operatori, che ha evidenziato l’importanza dell’indicazione sull’etichetta del luogo di origine e del luogo di trasformazione dei prodotti alimentari. La tracciabilità degli alimenti viene infatti percepita come garanzia di sicurezza: la conoscenza dell’origine del prodotto rassicura sul rispetto di standard di tutela alimentare e ben l’82% dei consumatori ha dichiarato la propria disponibilità a spendere di più per avere la certezza della provenienza italiana di un prodotto.
Come anticipato, se per alcune tipologie di alimenti la normativa europea è già intervenuta per prevedere l’obbligatorietà dell’indicazione di origine (ad esempio, il Regolamento UE n. 1337/2013 della Commissione fissa le modalità di l’indicazione del luogo di allevamento e del luogo di macellazione delle carni preconfezionate fresche, refrigerate o congelate di animali della specie suina, ovina, caprina e di volatili) vi sono ancora alimenti per i quali tali prescrizioni non hanno il carattere dell’obbligatorietà, come i prodotti caseari quali latte, burro, yogurt, mozzarella, formaggi e latticini.
Per questo motivo è intervenuta la normativa nazionale: il 15 ottobre 2016 lo schema di decreto interministeriale, adottato dal Ministero dello sviluppo economico e dal Mipaaf, ha ricevuto il placet da parte della Commissione europea, che non ha sollevato rilievi o obiezioni entro il termine previsto di tre mesi.
Il decreto prevede l’indicazione dell’origine della materia prima e si applica a tutto il latte animale e ai prodotti lattiero-caseari derivati che lo contengono (yogurt, formaggi, burro ecc.). La norma riguarderà le aziende italiane e la produzione delle stesse destinata al mercato interno: il provvedimento prevede l’indicazione obbligatoria dell’origine del latte e della materia prima usata per produrre derivati, che può essere di provenienza italiana, europea o extra UE.
Per evitare sanzioni, se il latte è stato munto, lavorato e confezionato nello stesso Paese sarà possibile fornire un’unica indicazione; se invece le diverse fasi di lavorazione sono realizzate in Paesi diversi, sulla confezione dovranno essere riportate le informazioni diversificate per “paese di mungitura”, “paese di condizionamento” e “paese di trasformazione”. Infine, qualora il latte provenga da diversi nazioni, l’etichetta dovrà riportare la scritta “miscela di latte di paesi UE” oppure “miscela di latte di paesi non UE”.
Tale provvedimento dovrebbe entrare in vigore a partire da gennaio 2017 e, ai sensi dell’art. 7 dello schema di decreto, applicarsi in via sperimentale sino al 31 marzo 2019, fatta salva l’adozione da parte della Commissione europea di propri atti esecutivi precedenti a tale data.